

La storia di Gino, ardito della Muti
Prefazione di Roberto Mancini
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«Appoggiato al muro, un ragazzo sui sedici-diciassette anni si difendeva come poteva da quattro coetanei che lo tempestavano di pugni e calci: «abbiamo pazientato anche troppo con i fascisti come te – urlavano – torna nelle fogne dalle quali sei partito e non farti più vedere, né qui né a scuola». Gino rivisse, in un baleno, la scena di quel 10 settembre del 1943, quando era toccato a lui conoscere la violenza e la prepotenza di quelli che erano, e sempre sarebbero stati, suoi nemici. Non esitò un attimo e, come Maciste aveva fatto quel giorno, intervenne. Aveva più di cinquant’anni ma il lavoro di officina gli aveva permesso di conservare un fisico robusto e una buona forza muscolare. E poi – pensò – è mio dovere intervenire comunque, anche se mi reggessi a malapena in piedi, come aveva fatto Dario quel giorno. Bastarono due cazzotti a quello che stava addosso al ragazzo, per rendere più prudenti gli aggressori, che poi la sirena di una volante in arrivo convinse a una fuga precipitosa. Aiutò la vittima dell’aggressione ad alzarsi, e notò – quasi come un segno del destino – la camicia strappata, come la sua giacca in quell’ormai lontano giorno di settembre. Quando fu in piedi, il giovanotto disse solo: «grazie, camerata, con noi non la spunteranno mai. Ora vado, e tu capisci perché. Spero di rincontrarti presto». E si allontanò in fretta, senza aspettare l’arrivo degli agenti che – non lo aveva detto, ma questo era il senso di quel «tu capisci perché» – lo avrebbero trasformato da aggredito in aggressore.»